David Cronenberg, regista di horror cult incentrati sulla mutazione del corpo, torna dietro la macchina da presa con il violentissimoLa promessa dell’assassino, che, a due anni da A history of violence, ne appare come la logica conseguenza. Francesco Lomuscio
“Un thriller sulla mafia intrecciato a drammi familiari, all’interno di una cornice in cui una subcultura coabita all’interno di un’altra cultura molto forte”
Classe 1943, David Cronenberg, autore di horror cult del calibro di Videodrome (1983) e La mosca (1986), definisce con queste parole La promessa dell’assassino, sua ultima fatica al cui centro troviamo l’ostetrica Anna Khitrova, con le fattezze di Naomi Watts (King Kong), la quale, decisa a far luce sulla tragica vicenda di una adolescente morta dando alla luce il suo bambino, finisce per trovarsi involontariamente nel mezzo di una vera e propria spirale di violenza scatenata da una delle famiglie esteuropee più famigerate di Londra, di cui fa parte il capriccioso ed instabile Kirill, fortemente legato all’autista russo Nikolai Luzhin.
E, ottimamente interpretati da Vincent Cassel (L’odio) e Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli-Il ritorno del re), sono proprio questi ultimi le vere star di una violenta pellicola che, senza perdere tempo, apre con un sanguinolento omicidio per poi affrontare la delicata tematica del traffico sessuale nel contesto di una Londra divenuta società poliglotta negli ultimi vent’anni.
Una Londra illuminata dalla bella fotografia di Peter Suschitzky (La maschera di ferro) ed in cui si avverte una certa presenza ossessiva dell’acqua, o, comunque, dell’umidità; mentre, come già successo con il riuscito A history of violence (2005), sempre interpretato da Mortensen, è facile intuire la tendenza del regista canadese a sostituire le sue classiche tematiche legate ad un male manifestato nella fantasiosa e raccapricciante mutazione del corpo, con orrori più realistici e concreti unicamente scaturiti dalla cattiveria dell’essere umano.
Su lenti ritmi di narrazione, quindi, vengono efficacemente costruiti circa 100 minuti di visione volti sì ad esplorare la psicologia e le vicende di un uomo (Luzhin) che non rivela mai la sua vera natura, ma indirizzati soprattutto a regalarci una delle migliori prove cronenberghiane, ennesimo film d’autore all’interno di cui, come sempre, pulsa in maniera evidente il genere.
Curiosità Lo sceneggiatore Steve Knight, candidato all’Oscar per lo script di Piccoli affari sporchi (2002), ha ottenuto sostegni finanziari sia a Londra che a New York per essere in grado di incontrare i criminali di entrambe le città, nonché la polizia londinese, il desk russo della West End e l’FBI statunitense. Francesco Lomuscio