Sempre meglio che lavorare,
saggio di Michele Brambilla

Michele Brambilla, giornalista di primo rango, ha aggiunto alle sue varie pubblicazioni sulla vita politica e di costume in Italia, questo nuovo libro Sempre meglio che lavorare, ovvero “Il mestiere del giornalista”, edita da Piemme editore, Casale Monferrato, nel 2008.
Carlo Vallauri

   

a

È una carrellata a vasto raggio di un professionista sulla sua stessa professione: così egli inizia rincorrendo la sua iniziazione come cronista di provincia, e poi, via via, una lunga carriera, caratterizzata dalla collaborazione con grandi giornali ed in particolare – ne ricordiamo tanti articoli su “Il giornale” di Montanelli – specie come “inviato speciale”.

   

Ambiente difficile come pochi per la necessità di contemperare la ricerca precisa di fatti con un insieme di relazioni costanti con diverse cerchie sociali, con le quali mantenere rapporti cordiali. Brambilla ebbe vari direttori da Piero Ostellino a Paolo Mieli a Mario Giordana e, infine Feltri a “Libero”. Una descrizione interessante, coincisa ed indicativa nel rappresentare le diverse personalità.

La permanenza al “Corriere” dall’85 per 18 anni, accanto ai “grandi” della stampa italiana.

 

Erano ancora i giorni della violenza, che colpì tra gli altri – non dimentichiamolo – Walter Tobagi, il probo e valente giornalista ucciso vigliaccamente da chi gli stava molto vicino.

E di ogni collega di valore Brambilla ricorda episodi, caratteri, aspetti multiformi.

   

Naturalmente tra le pagine più vive quelle concernenti l’intramontabile Indro, con i suoi ricordi del periodo fascista, e specie della guerra civile in Spagna, così come veniva presentata dalla stampa di regime.

 

Proprio per aver scritto parole che infrangevano il fronte dell’omertà, Montanelli fu espulso dall’albo. Tra l’altro di lui vengono ricordati alcuni personali sentimenti nel campo delicato delle credenze religiose e della morale (“Montanelli non era un ateo, ma uno che voleva credere. Non ci riusciva fino in fondo, ma voleva credereannotò Cesare Romiti).

   

Altrettanto viva la testimonianza su Giovannino Guareschi, l’elettrico giornalista, poi divenuto famoso con il suo don Camillo sul settimanale “Candido” che tanto scalpore suscitò nel dopoguerra, a destra come a sinistra.

 

Suscita attenzione altresì una serie di considerazioni sullo svolgimento dell’attività professionale in rapporto al linguaggio e ai mutamenti di costume specie in rapporto agli articoli per i quali i giornalisti possono incorrere nel rigore dei magistrati (una spada di Damocle sempre minacciosa).

   

Lo stile sobrio, la pacatezza dei giudizi e il tono misurato (rispecchiato nel titolo del libro) rispecchiano le qualità e la serietà di un giornalista che tuttora si legge con piacere.

Carlo Vallauri