Login | Guestbook | Immagini | Downloads | Mappa | 53 utenti on line
MENU

   Home
   Contattaci
   Chi Siamo
   Job oppurtunities


Rubriche

   Arte
   Cinema
   Eventi
   Libri
   Moda
   Mondomedi@
   Spettacolo
   Televisione
   Web Television


Pittori

   Galleria Digitale
   Giovani Promesse
   Maestri
   Nuovi Talenti


Archivio

   Archivio 2001- 2006


Multimedia

   Audio Interviste
   Video


 
Una novità di Letizia Russo

Udskriv SidenStampa Send denne side til en venInvia ad un amico 

Sentimenti sacrificati
in una prigionia privata
Letizia Russo ha portato sulla scena del Teatro India di Roma in Dare al buio (la fine l’inizio), il dramma umano della ragazza sottoposta a Vienna per 8 anni al sequestro da parte di un esaltato che l’ha rapita e trattenuta in casa sua come prigioniera quando aveva dieci anni.
Carlo Vallauri
   

a

L’Autrice, affermatasi giovanissima come scrittrice di talento, con perspicaci doti di penetrazione psicologica dei personaggi da lei creati (e abbiamo già avuto occasione di sottolinearne le doti di qualità), non ha certamente richiamato la cronaca per ripeterne riferimenti e dati quanto invece per innalzare quella crudele esperienza a simbolo di uno spaesamento individuale, una separatezza che non riguardava solo la segregata, ma lo  stesso responsabile di tale misfatto.
   
Ed allora le parole vengono usate per evocare stati d’animo di persone isolate dal resto del mondo al fine di afferrarne le sofferenze, offrendo una interpretazione del destino di quella ragazza come di un imperscrutabile evento, simbolo di ogni forma di chiusura non solo claustrofobica ma affettiva. Una disumanizzazione che Letizia Russo ha cercato di esprimere in senso poetico nell’alienante condizione di persone rinchiuse a lungo tra quattro mura ed un giardino in un rapporto di convivenza forzata.
 
C’è nel racconto il senso di un limite oltre il quale la sopportazione diviene dominio totale: la “liberazione” può avvenire solo attraverso la fine (di lui) e l’inizio (secondo i termini del sottotitolo dell’opera) della nuova vita di lei. Ecco allora riemergere nella bimba rapita, divenuta adulta in quel terribile buio, una disponibilità a vivere senza catene né materiali né psicologiche.
   
La levità del racconto non trova pari riscontro nel momento della rappresentazione nonché la scrittura sembra volatilizzarsi in un distacco del tutto irrealistico, fiabesco secondo l’autrice.
 
Renzo Martinelli, molto noto per i suoi originali e affermati film, ha trovato per questo spettacolo gli strumenti scenici di una versione tutta rivolta ad accentuarne gli aspetti esterni lasciando allo spettatore di intendere un amore impossibile nella speranza della liberazione. La Sala dell’India si prestava, nella sua stessa struttura, a fornire una serie di immagini tese verso l’imponderabile.
Carlo Vallauri